Erzählungen von Giuseppe Beppino Dallacosta – Laager - Teil 1

Untenstehend Anekdoten (in italienischer Sprache) von Giuseppe Beppino Dallacosta über einige Laager.
Danke Beppino, dass du deine Erinnerungen mit uns teilst.

EZIO MARCH 

Chi era costui? Per chi non lo sapesse era il 'giullare' di Laghetti negli anni '50. Era del '36(scomparso di recente). Come si vede dalla foto (è quello con l'elmetto delle SS) era un personaggio che portava allegria come si poneva e ti guardava, aveva sempre la battuta pronta. Non so se avete presente i film americani anni ' 30 dei fratelli Marx; ecco era uno di quelli. Fosse vissuto diversi secoli prima, avrebbe fatto fortuna come giullare di corte, il quale aveva un ruolo ben preciso; con i suoi saltimbanchi e battute improvvisate doveva far ridere a tutti costi il principe del castello per fargli passare le malinconie. Se non ci fosse riusciti sarebbero stati guai; ma questa è un'altra storia.
Tornando sul nostro Ezio mi ricordo che avevano allestito da carnevale un carro particolare, e giravano nei vari paesi limitrofi. Mi sembra ci fosse Gaetano Cembran come capo-comitiva, ma Ezio, credo cuocesse delle lucaniche in un vaso da notte, sul carro medesimo, facendo finta che fossero escrementi e con delle manovre molto comiche le faceva mangiare agli altri; il polo d'attrazione insomma era lui e basta. 
Ora mi ricordo:
Ritornando al fatto del carro di carnevale dove Ezio cuoceva le lucaniche nel vaso da notte, fatto di lamiera smaltata di bianco, la scena era questa; provate anche voi ad immaginarvela: Ezio era un chirurgo tutto vestito di bianco, abbastanza insanguinato ed in una mano aveva un coltellaccio da macellaio e nell'altra una forbice per le viti. Al suo fianco, un paziente sdraiato , che cercava di anestetizzare con la grappa e se non stava fermo gli dava un colpo in testa. A fianco del paziente stesso c'era (nascosto) un secchio contenente delle frattaglie (budella di qualche animale). Ezio faceva finta di tagliare il ventre al malcapitato ed estraeva le budella lanciandole verso il pubblico, chiaramente euforico, e gridava “Queste no le serve” ed il paziente sotto di lui continuava a ridere o gridare per il male atroce che doveva sopportare? Giudicate voi. La scena poi proseguiva con le lucaniche (escrementi) da divorare come già detto. 
Ezio aveva sempre la battuta pronta per ogni evenienza e quando era al bar, magari con qualche bicchiere di troppo, la comicità gli riusciva al top ed in quell'occasione il locale era pieno di gente.
Era colui che diceva a Placido (calzolaio a casa Lona), “Calma Placido.... che ghè anca el Moser” (calzolaio concorrente).
Un giorno, con dei compaesani, andò a Trento ed entrò in un bar abbastanza frequentato si avvicinò al Jucke-box e programmò una canzone primi anni '50, si chiamava “Papaveri e papere”, penso qualcuno di voi si ricorderà di quel motivo, era un po’ un scioglilingua. La ripeté 30 volte: Poco dopo il bar si svuotò e lui sorridendo uscì dal locale. Chissà come la prese il barista.
Un'altra volta entrò in pizzeria e non si sa come, con la pizza nel piatto, voleva fare il giocoliere; fatto sta che la pizza rimase appiccicata al soffitto. Chissà anche lì quale imbarazzo. La sua comicità a volte era forse esagerata ma allora era accettata di buon grado.
Tempo fa l'ho incontrato a Trento, mi sono fatto riconoscere; inizialmente non mi aveva presente. Lui era sempre uguale. Gli chiesi solo come stava, e senza ricordagli le sue avventure comiche; lui, si mise a piangere e mi espose di schietto tutti i suoi problemi, direi piuttosto importanti. Rimasi veramente commosso e non sapevo cosa dire. Poi mi salutò e gli porsi i miei migliori auguri. Onestamente non mi aspettavo un comportamento simile da una persona che ha fatto ridere molta gente. Non mi sembrava più lui. Ora c'è da chiedersi: Perché l'allegria non si riesce ad infonderla in noi stessi quando occorre, invece di donarla solo agli altri?

STORIA DI UN ETERNO AMORE - MA IMPOSSIBILE

Mia zia, suor Elisabetta Boscheri (1913-2008), era una donna piccola, ma con carattere molto forte.
A Laghetti in tanti l'hanno conosciuta in abito talare. La chiamavamo ''la zia Lizi''. Sin da giovane età aveva deciso di farsi suora. Mio nonno Bepi era molto orgoglioso di lei e la chiamava affettuosamente ''la me monegota''. Nelle famiglie numerose i genitori speravano che qualche figlio/a prendesse i voti religiosi. Ho sempre pensato che quel loro desiderio era un modo di garantirsi un bel posto in paradiso. 
Negli anni '50 tutti noi cuginetti eravamo sotto osservazione dalla zia Lizi, la quale sensibilizzava i suoi fratelli/sorelle affinché qualcuno prendesse la via ecclesiale. Un giorno mi madre me ne parlò e cercava di convincermi ad andare in collegio, ma io di animo libero com'ero non mi sentivo di finire in ''prigione''. Ogni tanto insisteva sull'argomento, ma io prontamente le dicevo ''tié'' e con l'avambraccio le facevo il gesto dell'ombrello. 
Un ricordo non proprio positivo di suor Lisi era quando con fare autoritario ci obbligava ad andare nelle varie campagne di domenica pomeriggio a raccogliere le mele da terra e a caricarle su un camion. I proventi servivano per finanziare un ampliamento dell'istituto per ragazze, dove lei risiedeva, a Milland di Bressanone. Come ringraziamento ci benediva facendo il segno della croce con il pollice della mano sulla nostra fronte.
Tornando alla sua vita  so che nel 2005 era stata festeggiata per il suo 70°  anno in abito talare; quindi prese i voti a soli 22 anni. 
Quand'era ancora ragazzina, aveva circa 16 anni, andò con sua sorella Erina, più grande di lei, a Trento a collaborare in un bar (esiste ancora) gestito da mie zie Dallacosta nel rione di S. Martino, vicino a Torre Verde. Era una bella ragazzina (come tutte le Boscheri) ed un giovane del luogo (faceva il pasticcere) si innamorò fortemente di lei. Chissà se lei gli aveva dato qualche spiraglio di speranza; alla fine non accettò le sue avances continue. Decise di farsi suora recandosi a Bressanone. La madre superiora, le chiese subito se quella sua decisione fosse stata dettata da una delusione d'amore e lei rispose decisamente ''no''. Quel giovanotto per molte volte venne a Laghetti sperando di vederla e faceva visita a suoi genitori dimostrando il suo amore fervente. Passarono gli anni e mia madre mi confidò che quel famoso innamorato (non più giovane) andava periodicamente a trovarla in convento spacciandosi per un parente, altrimenti la visita gli sarebbe stata negata. Lui si accontentava di vedere il viso e le sue mani da contemplare, l'unica cosa visibile agli occhi di un innamorato perso (le monache non potevano mostrare i capelli e pure il torace era fasciato per nascondere le curve femminili). Quell'amore così forte non gli permise di sposarsi e terminò la sua vita con in cuore un sentimento mai corrisposto. Lei aveva sposato il nostro Signore.

ROLANDO BOSCHERI

Rolando Boscheri, nato nel '36, era un personaggio unico in paese con quella sua caratteristica barba lunga stile Andreas Hofer. Era mio cugino di secondo grado; sua madre Virginia era sorella di mio nonno Bepi. Tanti in paese l'avranno conosciuto come persona che si curava poco ed un po’ bizzarro nel suo comportamento. Venne allevato solo dalla mamma, il padre non lo conobbe, e magari, come accade spesso, fu un po’ viziato. Me lo ricordo quand'era giovane, aveva una corporatura snella e forte fisicamente. Era uno dei più veloci raccoglitori di mele con quelle sue braccia e mani lunghe; era richiesto da molti. Ogni tanto veniva anche da noi in campagna con sua mamma, la quale aveva sempre con sé una cagnetta come dama di compagnia. Noi avevamo un bell'impianto di mele 'Jonathan' e Virginia ormai anziana lavorava stando a terra (la pelava ale basse) ed io le facevo domande (come al solito). Le chiedevo se Rolando fosse andato a scuola e lei mi rispondeva, in modo bonario e forse un po’ ingenuo, che non aveva frequentato le elementari in quanto soffriva di mal di testa. Probabilmente era capriccioso e di animo libero; non amava di certo la disciplina. A mio parere era comunque intelligente. Non so se la mamma fu sanzionata per le sue continue assenze dall'ambiente scolastico. Rolando imparò a leggere osservando le figure e le parole sui fumetti che reperiva all'albergo Marchiodi; lui abitava lì vicino. Era uno informato su tutto e tutti. Se fosse ancora in vita sarebbe una fonte di memoria storica. Abitava nella casa singola più a sud del vecchio nucleo di case ed un giorno mi disse “Ti ses el Bepi pù gioven del paes e l'ultim a esser batezà en la cesa vecia”. Aveva sempre la battuta pronta ed anche se non sembrava, le sue parole contenevano tante verità. Un giorno come battuta comica disse a mio cognato di origini lombarde, pure lui di nome Rolando, ma che aveva una corporatura minuta “Ti ses el Rolandino e mi el Rolandone”.
Purtroppo la sua sregolatezza lo portò a non diventare anziano. Lui riposa vicino alla sua mamma Virginia in una caratteristica tomba dove ci sono pure i suoi nonni Elisabetta Braito ed Augusto Boscheri, colui che assieme a suo fratello Emanuele, nati a Barbaniga di Cevezzano (TN), portarono il cognome 'Boscheri' a Laghetti divulgandolo proficuamente. 

ARTURO BOSCHERI 

Forse qualcuno si ricorda che a Laghetti ci fu un talento incompreso della musica: Arturo Boscheri (1926-1981).?
Era un bravissimo suonatore di fisarmonica (nella dinastia Boscheri ci sono stati diversi bravi suonatori di chitarra e fisarmonica).
Me lo ricordo; aveva un fisico magro alto con baffetti, una bella persona, sembrava un attore. Da giovane andò a fare dei provini fuori regione ed il più importante lo ebbe con il famoso fisarmonicista Gorni Kramer che fu direttore d'orchestra RAI nelle note trasmissioni Studio 1 degli anni'60.
Arturo era bravissimo e molto richiesto nelle varie orchestrine della zona.
Purtroppo il vizio dell'alcol lo catturò non riuscendo più a liberarsene ed alla fine se lo portò via a soli 55 anni.
Arturo fu l'ultimo figlio di Enrico e Rosa - aveva il fratello Bruno ed altre 4 sorelle.
Mia mamma mi raccontava che i genitori stravedevano per quel piccolo talento e forse non erano più tanto giovani per allevarlo a dovere; infatti dicevano sempre questa frase “Noi al nos Turele no ghe den mai bote”. Forse Arturo era un po´discolo ed i genitori non riuscivano a tener ben tirate le redini del controllo.
Anch'io da piccolo non stavo mai fermo e mia madre gli schiaffi me li dava di santa ragione; io per evitare i colpi avevo sempre le braccia incrociate sulla nuca. Lei, in quelle circostanze, ci rammentava, come esempio al negativo, il sistema di correzione troppo morbido adottato dai genitori di Arturo. Poi, sempre mi madre, mi raccontava che anche suo padre, quando disubbidivano, i calci nel sedere non li risparmiava. Io, pronto per un chiarimento, le domandavo: “Ma anche a voi femmine dava i calci?”
E lei rispondeva: “Si, ma a noi ragazzine ce li dava col piatto dello scarpone, mentre ai maschi di punta”; immaginate il perché. 
Quando la sera dopo il lavoro ci trovavamo al bar Enal o al Centrale, la solita cricca di amici ci raccontavamo i fatti della giornata; io portavo le barzellette nuove da Trento, ma il piatto forte era l'imitazione di Arturo.
Erich Ruele, faceva il mimo, imitava molto bene il nostro personaggio Arturo. Si sedeva, barcollante su una sedia, incrociava le gambe di scatto, poi cercava affannosamente le sigarette in una tasca ed i fiammiferi nell'altra. Sempre con degli scatti inconsueti estraeva le sigarette dal pacchetto gettandole tutte in aria, ovviamente per mancanza di controllo. Alla fine, ne metteva una in bocca, tremante, centrandola a fatica. Infine, per poterla accendere doveva strofinare il fiammifero, ma era un'impresa; poi con la fiamma accesa, finalmente dopo diversi tentativi riusciva a dare la prima boccata di fumo.
Eravamo veramente esagerati, si puntava sempre il dito sui difetti macroscopici degli altri. Oggi queste sceneggiate sarebbero inconcepibili.

 

OTTO BOSCHERI

Forse qualcuno può averlo intuito, era mio cugino e coetaneo Otto Boscheri. Quando avevo 8-9 anni ero spesso a casa sua dove trascorrevamo tanto tempo assieme. Lui, sin da quell'età, aveva la vocazione di condurre in futuro una vita religiosa e voleva fare le prove nel dire messa. Mi ricordo ancora la cucina di mia zia Stefania, sua mamma: c'era il vecchio focolare a legna e subito dopo da una porta si entrava nella stanza matrimoniale dove c'era una stufa ad ole e lì veniva allestito l'altare con delle cassette per la frutta, pezzi di stoffa per foderale e con candele accese. Solo che io, e qui stava l'inghippo, dovevo rappresentare la statua di Gesù stando immobile; onestamente mi stufavo. Ogni tanto zia veniva a controllare cosa combinassimo, penso avesse paura degli incendi. C'era il frate Priore dei padri cappuccini di Egna che veniva a trovarlo, aveva captato la sua vocazione e, diciamo, cercava di coltivarla. Io osservavo ma non entravo in sintonia; mi regalava qualche anellino o santini per cercare di invogliarmi, ma io ero, diciamo, di animo libero e solo al pensare che avrei dovuto entrare in collegio mi venivano i brividi. Mi piaceva stare con Otto perché era buono e di carattere mite. A mia madre dispiaceva perché stavo più a casa sua della mia; ma i miei fratelli erano molto più grandi e come tutti i bambini cercano propri simili. Ne avevamo fatte di marachelle assieme. Io a quell'età ero molto dinamico e forse trascinatore nei suoi confronti. Apro una parentesi; mia moglie mi diceva sempre “e vede che te sei nat soto la guera quando tuti i scampava”. Li nella pineta vicina, ad esempio, in una zona piuttosto umida, crescevano le liane, volevamo fare Tarzan arrampicandoci su quelle grosse mentre quelle fine e secche provavamo a fumarle usando ovviamente fiammiferi rubati; tossivamo come cani ma si insisteva comunque. Poi ogni tanto (sul doss delle moneghe) accendevamo dei fuochi. Vi immaginate come gli abitanti vicini si allertavano vedendo il fumo? Scappavamo a casa col fiatone dalla paura di prenderle.
Un giorno qualcosa cambiò nella nostra innocenza. Ero nella pineta dove ora c'è la caserma dei pompieri; osservavo dei lavori che non avevo mai visto. Srotolavano dei cavi d'acciaio da un grosso rullo di legno. Probabilmente i Bortolotti Bepi e figlio costruivano una teleferica provvisoria da filare, per così dire, la legna dal bosco della Matrutta o subito sotto (secondi e terzi orti?). Otto mi corse incontro, agitato, e disse testualmente “as Bepino che el Gesù bambino no l'esiste”. “Ma come?” risposi, sorpreso. “Si”, lui ribatté, “i regali sono i genitori che ce li fanno e non Lui”. “Ma chi te lo ha detto?” dissi e Otto mi indicò col dito uno ragazzo 4 anni più grande di noi. Era stato Paolo Rizzoli, figlio del maestro, a sfatare una credenza così importante per quell'età. Uno schiaffo di Don Tecini mi avrebbe, in senso lato, fatto meno male. Comunque, prima o poi doveva capitare. Corsi a casa da mia madre, che, alquanto sorpresa, lì per lì mi disse che quanto dettomi non era vero, poi piano piano a forza di insistenze, a malincuore disse la verità. In fondo, Paolo, aprì una strada che i genitori non riuscivano ad affrontare.
Otto seguì fermamente la sua vocazione ed andò a Salern, un convento dei Cappuccini sopra Varna di Bressanone. Ogni tanto, ma solo dopo qualche anno, potei andarlo a trovare. Gli chiedevo che significato avessero i tre nodi del cordone portato in vita e mi disse: “Carità, castità ed obbedienza!. Gli tolsero persino il nome, lui si chiamava “Fra Bernardino” ed ogni volta che entrava dal frate Priore doveva baciare la soglia dell'uscio. Insomma, a mio parere, la sua vera identità non c'era più.
Siamo sempre rimasti grandi amici. Lui celebrò nel '72 il mio matrimonio nella bella Abbazia di S. Lorenzo a Trento (vicino alla stazione FS) e battezzò, anni dopo, in Duomo mia figlia Francesca

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