Erzählungen von Giuseppe Beppino Dallacosta - Kindheitserinnerungen - Teil 1

Untenstehend einige Kindheitserinnerungen (in italienischer Sprache) von Giuseppe Beppino Dallacosta.
Danke Beppino, dass du deine Erinnerungen mit uns teilst.

IL PIPO BOMBARDO' LAGHETTI

Il Pipo, così era denominato, era un aereo Piper (si pronuncia 'paiper') americano di piccole dimensioni in dotazione agli inglesi ed aveva il compito a sorvolare di notte, soprattutto quand'era sereno, le nostre zone per controllare il movimento di truppe o materiali bellici tedeschi. Come noto dal settembre '43 la Germania con le sue truppe occupò il suolo italiano e la più grande via di comunicazione era lungo l'asse del Brennero. Il 'pipo' faceva azione di disturbo ed osservava tutto, volando di notte controllava le fonti luminose e, se sospette, le colpiva con bombe di piccolo calibro. Se invece individuava grossi bersagli, magari in movimento, segnalava al commando delle cosiddette fortezze volanti USA tipo B 29 per colpire i bersagli di notevole entità con bombe da 500kg.
Il Pipo volava molto alto per non farsi colpire dalla contraerea della Flak, posizionata sul ''second dos'' (conoide in discesa dalla Matrutta sopra la pinara). E per questo motivo penso non potesse essere preciso nel colpire l'obiettivo nominato qui di seguito.
A casa Piffer, dove ora c'è una pizzeria, i tedeschi avevano requisito la distilleria. Imbottigliavano grappa a turno continuo. Questo alcolico era il carburante per le truppe al fronte (riscaldava e dava coraggio anche inconscio ai soldati in combattimento). Durante la distillazione, per evitarne intossicazione etilica, aprivano i portoni affinché entrasse aria fresca. Una notte il Pipo notò probabilmente quella fonte di luce piuttosto evidente e sganciò tre bombe, ma nessuna colpì l'obiettivo prescelto.
Una entrò in casa di Pintarelli lì vicino. Scoppiando per fortuna non fece vittime anche se le schegge si conficcarono sui muri sopra i letti.
La seconda colpì la canonica e don Tecini si salvò fortunosamente; una trave si mise di traverso facendo scudo al prete che rimase pressoché illeso. La mia famiglia gli diede ospitalità per qualche mese (allora abitavamo a casa di Bepa Zanot) finché la canonica non fu resa abitabile. Si sa, il parroco aveva un carattere forte e quando si arrabbiava le pie donne dicevano ''bisogna soportarlo ghè crodà la bomba sula testa''.                                                                                     
La terza bomba cadde alle ''barache''. Mi ricordo di una buca abbastanza profonda dove andavamo a giocare, non so se la bomba cadde proprio li.

LA FAME NEL PRIMO DOPO-GUERRA CHI NE AVEVA TANTA CHI POCA

Avevo 4 anni circa ed in quel periodo mi ricordo che soffrivo di inappetenza a causa di una forte otite mal curata. Allora quando si aveva mal d'orecchi immettevano nel dotto auricolare dell'olio caldo; era una cura palliativa se il timpano fosse stato forato, detto in dialetto erano ''peti per la toss''. Allora gli antibiotici non esistevano; c'era la penicillina ma era rara, costosissima e veniva impiegata solo in casi gravi o dopo importanti operazioni chirurgiche. Sono passato da diversi medici a Trento e Bolzano ma non riuscivo a guarire e soffrivo di continuo. Un dottore addirittura si dimenticò nella parte interna dell'orecchio delle garzette finissime che servivano per assorbire il pus. Poi finalmente il problema venne risolto. Mi ricordo un certo dottor Zanoni di Bolzano mise un grande bavaglio bianco che faceva ponte col suo grembiule, prese un tampone (probabilmente con cloroformio) e velocemente mi tolse le adenoidi dicendo '' qui bisogna far veloci come i ladri altrimenti si sveglia''.
Mia madre poverina, durante quel periodo, cercava in tutti i modi di farmi mangiare preparandomi una delle prelibatezze per quel tempo, cioè lo ''smarm'' con le uova e la marmellata. (A Trento le chiamano ''fortaie'' nel roveretano ''la becca'') Mi portava il piatto a tavola, venivo servito per primo, nel frattempo lei cuoceva dell'altro ''smarm'' SENZA uova per il resto della famiglia. Da un lato del tavolo c'era mia sorella Rita e dall'altro mio fratello Elio; io mingherlino inappetente e loro due bei robusti ed affamati. Mi distraevano dicendo ''varda Gesù sul crocefiss che'l se move''; io alzavo gli occhi e loro con due sforchettate mi svuotavano il piatto. Alla fine, eravamo tutti contenti, a me avevano fatto un piacere, loro due pure, che avevano divorato le migliori specialità e mia madre felice che avevo mangiato tutto. Forse i mei fratelli, oltre la fame, soffrivano anche un po’ di gelosia per la differenza di trattamento adottata nei miei confronti. Si sa, un saggio genitore deve sentirsi obbligato ad aiutare maggiormente un figlio in caso di forte necessità.
Com'è difficile a volte essere imparziali.

ALCUNI CENNI SUL MEDICO CONDOTTO DI EGNA NEGLI ANNI '30 - '60 (ADESSO SI DICE MEDICO DI BASE) 

Dott. Silvio Menestrina, laureatosi in medicina e chirurgia a Bologna nel '24- trentino di origine, ad Egna gli hanno intitolato una via.
Mi ricordo la persona, era piccolo di statura, testa rotonda, completamente calvo, piuttosto grassoccio.
A quei tempi, solo i casi gravi venivano curati all’ospedale, i rimanenti in ambulatorio.
Ad Egna lo studio dove il dott. Menestrina accettava i pazienti era nella casa a sinistra, andando verso nord, nel punto più stretto della strada (allora nazionale) dove poi girando si imbocca la via dei portici. Ricordo, quando mi recavo in ambulatorio con mia madre, al primo piano, avevo la sensazione di andare al calvario; lì il dolore fisico era assicurato. C'era un odore acre di disinfettante che trasmetteva ansia se non panico. Se poi c'era da estrarre un dente ancora peggio; l'anestesia non esisteva, osservavo le pinze di varie forme, incominciavo a sudare cercando di prevenire il dolore in arrivo; l'unico sedativo per così dire era la mano di mia madre che stringevo a più non posso durante l'intervento. Non so se il calzolaio di Laghetti avrebbe fatto di meglio. Ogni giovedì il dottore veniva a Laghetti con la sua vettura a visitare gli ammalati.
Anche la sterilizzazione degli strumenti, cosa importantissima, lasciava a desiderare. Una volta alle vaccinazioni fatte a Laghetti mia madre portò sorella Rita in ritardo, lo pregò di provvedere ugualmente ad inoculare il vaccino e lui estrasse dalla tasca il bisturi e praticò la piccola incisione sul braccio della bambina. Dopo alcuni giorni, si formò un ascesso al braccino che si dovette incidere in zona ascellare per togliere l'infezione. Il Dottore aveva sempre il toscano in bocca; chissà se quel coltellino era stato infettato dal tabacco sparso nella tasca.
Una volta avevo fatto un volo e mi ero procurato una ferita al capo e sanguinavo parecchio. Chiamarono il Dott. Menestrina, che guardò la ferita e disse a mia madre ''al vomità sto matelot'', temeva una commozione cerebrale. Poi rivolgendosi a me disse '' te gai nausea''? ed io prontamente puntai dito contro il suo viso e dissi debolmente ''el fum del toscan''. Capite, stava fumando mentre mi visitava; era un'idiozia vera e propria.
Infine, giocando a calcio in uno scontro con Giulio Andreatta, molto più alto di me, mi piantò un dente in testa. Fece infezione; andai dal solito medico e lui, già col bisturi in mano propose di incidere e spremere la parte infetta. Mi rifiutai, mi vennero in mente troppe cose vecchie e mi curai a casa.

LA SCUOLA ELEMENTARE ITALIANA DI LAGHETTI AI MIEI TEMPI

L'insegnante della 1a e 2a era la maestra Giuseppina Manzoni, proveniente dalla Liguria se non erro. Era vedova e viveva con sua mamma al piano superiore della scuola in un appartamento dove poi anni dopo ricavarono le aule delle scuole tedesche.
Era soprannominata la maestra ''rossa'' non per la sua ideologia politica, anzi, era di corrente opposta. Vestiva in modo elegante, aveva unghie e labbra di un rosso vivo e mi sembra anche i capelli. Era severa e quando passava tra i banchi di classe allungava le mani indicandoci sul quaderno, puntando con le unghie vistose gli errori commessi. Nel passare emetteva una scia di profumo inebriante e quando il suo viso si chinava su di noi dalla sua bocca usciva un forte sapore di liquirizia, continuava a masticare i sughini (ve li ricordate?). Chissà forse voleva mascherare l'odore del fumo di sigaretta.
La Manzoni che mi ricordo fu una maestra severa e pretendeva che si imparasse bene l'alfabeto ed i numeri; ritengo fosse giusto così. I bambini, se stimolati a dovere e con la mente fresca in loro possesso possono apprendere tantissimo e sviluppare bene la memoria. Il segreto sta nel far piacere loro le cose da imparare.
Trent'anni dopo circa la riconobbi a Trento, dove viveva, ormai anziana e la presentai a mia figlia ancora piccolina e dissi: ''Vedi questa era la mia maestra''. Si commosse, quasi da piangere.
Nella 3a e 4a la maestra era Corsini Elisa sposata Atz. Insegnante buonissima ; era bello stare con lei, come fosse una seconda mamma. Preferiva insegnarci la matematica piuttosto che la grammatica. 
Nella 5a classe avevamo il maestro Vittore Rizzoli originario di Cavalese; era di corrente socialista e non andava d'accordo con don Tecini chiaramente per ragioni politiche. Frequentai la 5a due anni consecutivi poiché ero troppo mingherlino per recarmi in treno e frequentare le superiori a Trento. Furono due anni di parcheggio, imparai ben poco ed alle scuole commerciali in città ebbi un impatto negativo; feci fatica a riprendermi. I professori dissero chiaramente che scrivevo in maniera dialettale. 
Alle elementari studiavamo anche un pò di tedesco, due ore a settimana; poche per imparare una seconda lingua.
Verso la fine anni '60 conobbi diverse ragazze olandesi, ospiti all'albergo Nicolodi. Parlavano il tedesco meglio di me ed oltre alla loro lingua conoscevano pure l'inglese. Mi resi conto della nostra arretratezza. La scuola è importante per preparare al meglio una popolazione.

I NOSTRI PASSATEMPI SULLA NEVE NEL DOPOGUERRA 

A quei tempi gli inverni erano più freddi degli attuali e durante le abbondanti nevicate ci divertivamo a slittarci partendo da una vecchia strada sopra casa Zanotti (el bruta galina) e si arrivava in piazza sotto casa Cainelli. Io possedevo una specie di slitta, sembrava un bauletto colorato, mentre altri avevano delle belle slitte, penso tedesche con i legni ricurvi, come delle corna, ed erano più veloci. Qualche bullo mi scansava dicendomi ''Vai via con quel casson che rovines la slitara''. I miei non potevano permettersi a quel tempo una slitta più bella, nemmeno l'avessi chiesto a Gesù Bambino....; erano impegnati finanziariamente per l'acquisto della casa. C'era un brevetto ''laghero'' per curvare senza frenare con i piedi, trascinando un bastone sottobraccio nelle veloci discese. Quando la ''slitara'' era ben ghiacciata ci divertivamo a ''slaifenarne'' (deriva dal tedesco) sul ghiaccio che si rendeva più veloce dopo una breve nevicata. A volte si prendevano dei rami di abete (le dase), si fasciavano e ci sedevamo sopra. Sul ghiaccio si era molto veloci ma non si riusciva a controllare la direzione. Insomma, non si aveva voglia di tornare a casa, nonostante i piedi ghiacciati (le scarpe di allora non stagnavano). A tarda sera quando il freddo si faceva pungente con un gran male ai piedi per i geloni (buganze) si ritornava in famiglia con i compiti di scuola ancora da fare. Il male a mani e piedi era pungente soprattutto se si mettevano vicino ''al fogolar'' acceso; bisognava massaggiarli fortemente. I nostri vecchi dicevano che ''sti ani'' per stare meglio in simili circostanze, immergevano i piedi nel vaso da notte contenente urina con l'aggiunta di cenere. Io non l'ho mai provato.
Altra attività sportiva sulla neve, praticata dai più grandicelli, era quella di sciare con “le dove''. Erano formate da assi di legno ricurvo ricavate da vecchi''botesei'' (botti) in disuso; erano lunghe circa un metro, da un lato si faceva la punta ed al centro venivano inchiodate delle gomme, da infilare le scarpe, ricavate da vecchi copertoni di bicicletta. Facevano lo slalom tra i pini su neve ghiacciata. Chi era bravo con le ''dove'' divenne un ottimo sciatore. Lo sci club del paese nacque circa dieci anno dopo.
Insomma, ci divertivamo con niente.

TEMPO DI BRINATE

La 'bruma' era una temibile calamità naturale del periodo primaverile, fino a quando, verso alla fine anni '50, non avevano lanciato il nuovo sistema antibrina.
Avevo 5 anni circa, mi ricordo quando, osservando dalla finestra di casa al mattino presto, vedevo una cortina di fumo e guardando verso sud non si vedeva il paese di Salorno. A quel tempo abitavamo a casa Zanot all'ultimo piano, con buon campo visivo, la casa che non è stata modificata (si trova a fianco di casa Beppino Eccher).
La campana suonava all'alba per segnalare la bassa temperatura della notte e tutti i contadini dovevano recarsi nei propri campi ed accendere dei fuochi con degli sterpi (sarmentei ancora verdi) o carcasse di pneumatici; insomma, qualcosa che provocasse del fumo intenso in modo da alzare la temperatura. Purtroppo, il risultato era modico, forse di mezzo grado C. Se era meno 3/4 delle viti erano spacciate. Per fare una grande cappa fumogena tutti dovevano partecipare, nessun escluso. Leggendo la storia della 2a guerra mondiale, sembrava avessero utilizzato i fusti di gas fumogeno utilizzati per nascondere i movimenti di truppe. Quel gas, si seppe poi che era altamente cancerogeno e buona parte degli addetti arruolati nella Flak ebbero problemi di salute.
Mi ricordo ancora mia madre, mentre osservavo dalla finestra, percepivo in lei molta preoccupazione e con voce commossa mormorava ''pregà, pregà, mateloti'' e con la corona in mano girava per le stanze; prendeva delle foglie essiccate d'olivo (benedette la domenica delle Palme) le bruciava in un piatto con a fianco dei santini.
Inutile dire, ci si appellava alla fede, allora molto forte. La tecnologia doveva ancora arrivare.

ROGAZIONI

Penso che i giovani non le conoscano, ma gli attempati del nostro sito ritengo le abbiano sentite nominare.  “Rogare” significa pregare, implorare.  Era una funzione in uso sin dal medioevo e consisteva nel peregrinare in processione nelle campagne del paese al mattino verso le ore 6 circa.
Il parroco, con i paramenti di colore viola, invocava unitamente ai fedeli, la benedizione del Signore e dei Santi con la nomina degli stessi uno ad uno e la popolazione in processione rispondeva con la solita frase in latino “ora pro nobis”. La cerimonia avveniva nei tre giorni antecedenti l'Ascensione che di norma si celebra il giovedì. Pertanto, ogni giorno veniva scelto un percorso diverso affinché tutte le campagne avessero la loro benedizione. Il significato di quella liturgia era quello di proteggere le colture dalle insidie della meteorologia: brinate primaverili, grandinate estive oppure alluvioni. Queste ultime, erano rare, ma quando succedeva, spazzavano via tutte le coltivazioni dei campi specie nel 1882. In quell'anno mio nonno Bepi (aveva solo cinque anni) mi raccontava la devastazione verificatasi non solo a Laghetti ma anche nel Trentino.  L’economia, a quei tempi, era prettamente contadina e se sfortunatamente fossero accadute dette calamità naturali per 3 anni consecutivi, il sistema economico sarebbe stato stravolto e la popolazione sarebbe stata costretta ad abbandonare la propria terra ed espatriare magari in America o nel nord Europa, dove l'industrializzazione si stava sviluppando fortemente, sin dal 1860. 
Ogni tanto ero anch'io costretto, almeno per un giorno, di partecipare alla funzione. Non mi piaceva alzarmi presto come del resto tutti i ragazzini (non ero chierichetto). Mi ricordo queste processioni con in testa il noto Don Tecini con chierichetti a fianco, seguito dalle pie donne in preghiera, noi ragazzi ed infine gli uomini.  Le donne e ragazze erano sempre molto devote rispondendo rigorosamente alle litanie; noi come al solito eravamo distratti ed in mezzo all'erba, magari bagnata cercavamo lumache da raccogliere di nascosto le mettevamo in tasca muniti di un sacchetto di pezza. Era una specialità a quei tempi. Dovevamo stare molto attenti a non uscire troppo di lato dalla processione perché se il parroco con la coda dell'occhio si fosse accorto, una tirata d'orecchi non ce l'avrebbe risparmiata nessuno. Infine, gli uomini non facevano altro che borbottare tra loro, parlando di affari inerenti la terra; ed era un modo per poter curiosare le campagne degli altri e fare confronti sul sistema di coltivazione. Onestamente un po’ d’invidia c’era se un contadino aveva la frutta più bella rispetto alla propria. Quella pratica religiosa fu ridimensionata dal Concilio Vaticano 2° del 1964.

IL CORPUS DOMINI

LA FESTA RELIGIOSA DI PRIMAVERA PIU' SPETTACOLARE  

E' una festività nata nel medioevo e viene celebrata entro il 60° giorno dopo Pasqua, la quale, a sua volta, si festeggia la domenica successiva al primo plenilunio di primavera. Insomma, è tutto collegato alla luna, come pure le Pentecoste entro il 50° giorno dopo Pasqua.
Una volta Il Corpus Domini si celebrava il giovedì; oggi viene spostata alla domenica dopo per ragioni politiche.
Questa festività venne introdotta per mostrare ai fedeli fuori dal luogo di culto il Corpo di Cristo incastonato sottovetro in un ostensorio di metallo prezioso.  (ostensione = mostrare)
A parte questa breve introduzione voglio accennare dei particolari su quanto mi ricordo di detta festività.
La processione iniziava con alla testa il crocefisso (che vedo ancora in chiesa) portato sempre da Gaetano Tessadri, vestito con tunica color rosso vinaccia della confraternita del Santissimo Sacramento. Chissà per quanti anni avrà portato quella croce.
Anche i 4 portatori del baldacchino ed altri con in mano i candelabri accesi avevano stessa tunica. Don Angelo vestito con paramenti dorati, sotto il baldacchino, metteva in bella esposizione l'ostensorio. Lui era piccolo di statura e le sue possenti braccia le teneva ben alzate, affinché adulti e bambini potessero osservarlo ed al suo passaggio, tutti si inginocchiavano con massima devozione.
La processione aveva pure al seguito delle bambine vestite di bianco (probabilmente le prime comunicanti) e sul davanti portavano un tascapane pieno di petali di rose profumate che cospargevano al passare del Santissimo Sacramento.
Ai miei tempi il primo altare era allestito a casa Zanot (tra casa E.Boscheri ed Eccher); li ad attendere c'era a volte qualche bambino vestito da angioletto con le ali. Terminata la breve funzione si proseguiva verso il secondo altare situato a casa Luiz Girardi. (Il libro di Cembran riporta una bella foto del 1950 con un bimbo seduto sul gradino dell'altare). Il 3° altare era sistemato a casa Decarli - tra i due bagolari - ed il quarto a casa Nicolodi di fronte al vecchio pozzo (successivamente mi sembra a casa Rossi di fronte alla chiesa). Detto percorso era tutto addobbato a festa; le donne esponevano dalle finestre i copri letti migliori, tovaglie di pizzo e quant'altro che attirasse l'attenzione. Noi ragazzi andavamo nel bosco a tagliare rami di carpini le cui foglie erano abbastanza grandi per coprire le cose esteticamente brutte tipo i depositi di letame (le buse della grassa). Si tiravano delle corde e dette frasche venivano poste in piedi e legate. Anche i depositi di carri (le doane), stalle ecc. venivano in certo modo mascherate; tutto doveva apparire bello e lindo al passaggio del Nostro Signore. 
Una cosa non si poteva nascondere era la puzza, ma allora eravamo tutti assuefatti. Oggi no.
Pure le mamme spupazzavano mettendo in bella mostra i loro pargoli con quelle classiche braghette corte a sbuffo che andavano di moda anche prima della guerra. A mio parare, a quel tempo si voleva far vedere più ricchezza di quanta effettivamente ce ne fosse. Il conflitto era terminato da pochi anni e delle sacche di povertà ne esistevano ancora.
Conservo sempre dei bei ricordi di quelle celebrazioni.

Foto: Bepa Zanot di fronte all'altare allestito per il Corpurs Domini

MAGGIO – MESE DELLE FUNZIONI RELIGIOSE SERALI E DELLE ZORLE

I maggiolini, si chiamano proprio così, perché in questo mese erano molto attivi, insetti terribili defogliavano le piante, pressoché scomparsi dopo l'uso in grandi quantità di potenti antiparassitari. Quand'eravamo ragazzini ci facevano intendere che con i maggiolini producevano il noto Maggi (una miscela liquida per insaporire le minestre). Chiesi conferma di ciò a mio padre un giorno mentre stava cenando; rimase stupito dalla domanda. Non mi ricordo se sputò la minestra appena insaporita col noto prodotto.
In quel mese alle ore 20 c'era la funzione religiosa (in quegli anni l'ora legale non esisteva); era l'imbrunire e sui pioppi adiacenti la chiesa c'erano tantissime zorle semiaddormentate. Ci arrampicavamo sugli alberi e scrollavamo i rami; ne cadevano a centinaia, le raccoglievamo in quantità ed indovinate cosa si faceva?
In chiesa, semibuia, Don Tecini (che amavamo tanto) era sul pulpito che leggeva l'omelia, e per illuminare le pagine in lettura, aveva un faretto vicino. Le zorle venivano lanciate all'interno della chiesa le quali, svegliatesi e attratte dalla luce, non facevano altro che ronzare vorticosamente attorno al parroco e lui, continuando a leggere con voce arrabbiata, smanacciava cercando di prenderle o scacciarle. Ci prendevamo pure noi le piccole soddisfazioni. Dovevamo però stare molto attenti perché Maria, sua sorella perpetua, lo informava di tutto e se ci avesse individuati, il giorno dopo a scuola sarebbero stati guai.
C'era anche un detto alquanto denigratorio '' ses endormenzà come na zorla''.

 

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